Archivi del mese: novembre 2012

Prime impressioni

Stamattina sono scesa a piedi in città e ho fatto qualche foto. Così lascio che le foto oggi parlino per me e appena posso ci aggiungerò le parole, le emozioni, un po’ di Bath through my eyes.

 

Umido!

 

Le tipiche case di queste parti

 

Kiss the frog again…soon you’ll find your prince!

 

Charity shop: di questi ce ne sono dappertutto

 

I biscotti vanno da queste parti…

 

da dove scrivo in questo momento fanno il “best espresso this side of Milan”

 

E ora vado, c’è una graaande cucina che mi aspetta! Happy girl!

 

 

 

 

 

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Pre-partenza e confort zone

Stamattina ho messo la sveglia presto, per poter sfruttare al meglio ogni minuto, perché oggi è il giorno prima della partenza.

 

E nella testa avevo una lunga e confusa lista di cose da fare che comprendeva spedire un paio di pacchetti, stampare il biglietto, guardare che tempo farà a Bath per decidere cosa mettere in valigia, comprare una guida, comprare un letto nuovo, guardare il cambio sterlina-euro, scrivere un paio di mail, fare un paio di telefonate, fare la valigia, lavarmi i capelli and so on and so on, potrei andare avanti ancora parecchio.

 

E pensavo, durante la giornata, a quella sensazione che mi sentivo addosso di voler fare tante cose, di voler vedere le amiche per salutarle, e telefonare e scrivere mail e spedire pacchetti. E mi sono resa conta che è come se volessi fare una scorta di cose conosciute, delle persone vicine, delle strade della mia città, di conversazioni nella mia lingua e di acquisti con la “mia” moneta. E’ come se volessi fare una scorta di “confort zone”.

 

Perchè partire vuol dire uscirne. Vuol dire ritrovarsi fra persone che non conosci, in una città che non conosci, a parlare una lingua che non è la tua e a fare i conti in testa per sapere quanto costa un panino, o un libro o il biglietto dell’autobus. E vuol dire scoprire cose nuove, posti nuovi, persone nuove, parole nuove, gusti nuovi.

 

E per me soprattutto vuol dire scoprirmi e conoscermi in modo nuovo. Scoprire i miei modi di affrontare le novità e gli imprevisti di un posto nuovo, scoprire i miei meccanismi di adattamento, scoprire come certe cose di me non cambiano, nemmeno con l’inglese, con le persone o con i posti sconosciuti.

 

E lasciare la mia confort zone un po’ mi spaventa, perchè vuol dire entrare in un territorio in cui mi devo mettere in gioco, forse di più di quanto non faccia quando sono a casa.

 

Ma conosco anche quella sensazione di familiarità che scopro dopo qualche giorno quando, oltre le novità, comincio a scoprire le cose simili, quelle che mi fanno sentire a casa via da casa e quelle che mi fanno pensare “ah vedi, anche qui…”, quelle che mi fanno capire che sto riuscendo a crearmi un mio nuovo spazio, dove il nuovo ed il vecchio hanno trovato una nuova forma, ed io sono sempre la stessa, ma un po’ diversa.

 

E all’improvviso ci sono di nuovo nella mia confort zone, una nuova, che prima nemmeno sapevo esistesse. E allora è bello, perché sento che questo posto, queste persone, questi colori, questi gusti sono diventati anche miei. A volte invece l’alchimia non funziona, ma è bello lo stesso, perché imparo a conoscermi, e a riconoscere quali sono quegli elementi che permettono ad un posto qualunque di diventare un posto mio, oppure no.

 

P.S.: e parlando di prepararsi a partire c’è un’altra sensazione che ormai mi è familiare: quella della valigia fatta a mezzanotte. Perchè non importa quanto presto io mi svegli la mattina, ormai lo so, la valigia la faccio sempre all’ultimissimo minuto.

 

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Reportage di una settimana in fattoria – part 3

Eccomi, the final episode…

 

Ora che “l’altra me” si gode quel senso di pienezza che ti dà l’essere riuscita a usare le parole per esprimere le emozioni, io ci provo di nuovo a raccontare ancora un paio di cose sulla vita in fattoria.

 

Ci pensavo prima e mi dicevo “e che c’avrai da raccontare di una settimana in fattoria che ancora scrivi?”, è vero è stata solo una settimana, eppure ho visto, imparato e fatto un sacco di cose.  Il giorno prima di partire, parlando con i padroni di casa facevo, un po’ scherzando ed un po’ no, la lista di tutte le cose nuove che avevo imparato o fatto per la prima volta durante quella settimana.

 

E a parte ciò che ho già raccontato ho anche visto un frantoio, di quelli vecchio modello, ed ho scoperto come si fa’ l’olio. Ho passato una mattinata a pulire l’orto dalle erbacce per scoprire che ha un effetto profondamente rilassante su di me. E poi ho raccolto le mele dall’albero.

 

Mentre andavamo al frantoio a portare le prime cassette, Barbara e Maurizio, i miei ospiti, mi hanno avvisata “Il tizio del frantoio è un po’ particolare, attacca bottone e può andare avanti a parlare per delle ore. E poi è fissato con il peso: vedrai che ti squadra e cerca di indovinare quanto pesi e poi per provarti che ha ragione ti fa salire sulla pesa delle olive!”. La visita al frantoio si preannunciava decisamente interessante. Io me ne sono stata zitta zitta ad osservare fino a quando il frantoiano, così lo chiamavano, mi ha chiesto se avevo la lingua. A quel punto ho semplicemente annuito e quando lui mi ha chiesto da dove venissi, credendo che fossi straniera, la prima risposta che mi è venuta in mente è stata “Inghilterra”. Lui mi ha guardato tutto sorpreso e mi ha detto “ma, strano, non mi sembri, quegli occhi hanno troppa luce”, al che ho corretto il colpo dicendo che i miei genitori sono di origini spagnole. Ma dentro di me mi chiedevo se la “luce” che diceva di vedere fosse quelle degli occhi scuri mediterranei o quella degli occhi che cercano di coprire una bugia con scarsi risultati… Ad ogni modo, invece che sul mio peso, ha deciso di indovinare la mia età. “E fammi indovinare un po’, hai 26 o 27 anni” e io, “No, no, 28”. Insomma sono uscita dal frontoio con un’identità nuova di zecca: 28enne inglese con origini spagnole, poco credibile, ma divertente!

 

Ma veniamo all’olio: in questo frantoio mettono le olive in una sorta di grande vasca dove ci sono due macine di pietra che girano, girano, girano fino a ridurle in una poltiglia che ha l’aspetto di un patè (ma non il sapore!). Poi questo impasto viene spalmato su dei dischi che vengono impilati l’uno sull’altro e messi sotto una pressa. Qui l’olio, misto ad acqua, comincia a colare e viene raccolto in una centrifuga dove poi viene separato dall’acqua e voilà, è pronto. Ci sono anche dei frantoi più moderni che funzionano in modo diverso, ma io non ne ho visti. Comunque è molto bello ora, quando cucino, avere un’idea di cosa succede prima e di come, dall’albero, si arriva al condimento per l’insalata.

 

E poi ho lavorato nell’orto. Mia madre ce l’ha sempre avuto un orto con un po’ d’insalata e di pomodori e tutte le erbe aromatiche, ma le mie massime incursioni in questo territorio erano per raccogliere qualche pomodoro o qualche foglia di basilico che “scusa mammina ma non c’ho voglia di sporcarmi tutta di terra”. Poi, un giorno, visto che il tempo non era proprio bello, Barbara mi dice “Che ne dici se oggi lavoriamo nell’orto” ed era chiaramente una domanda retorica perché, essendo loro ospite, non mi potevo permettere di fare la schizzinosa come facevo con mia madre. E quindi nell’orto, a togliere le erbacce. Era tutto bagnato perché aveva piovuto da poco, io avevo gli stivali di gomma verde militare, che non mettevo dai tempi delle mie field trips lungo i fiumi colombiani, e i guanti da giardinaggio. Le maniche della felpa hanno cominciato a sporcarsi di fango ed ho pensato, letteralmente, di rimboccarmele, così non si sarebbero sporcate di più. Chissà che problema ho io con l’idea di sporcarmi.  Chiaramente le ortiche hanno cominciato a pungermi le braccia nude ed io ho pensato che era meglio la felpa sporca ed ho riabbassato le maniche. Comunque c’è qualcosa di speciale nel lavorare all’aria aperta, accucciati, a diretto contatto con la terra. Ora, io non mi intendo assolutamente di meditazione, ma in qualche modo ho l’idea che la sensazione che ho provato in quel momento fosse simile a quella che si prova meditando. E’ come se all’improvviso fossi da sola, in uno spazio tuo, connessa e collegata alla terra in un modo difficile da descrivere a parole. E senti i profumi della terra bagnata che si mescolano con quelli delle piante che hai intorno, e ti fermi ad ammirare un cespo di insalata che ha una forma così perfetta che ti sembra impossibile che una volta fosse solo un semino, e poi magari scorgi un maggiolino su una delle foglie che stai strappando e gli dai il tempo di passare ad una foglia di insalata. Ecco insomma una sensazione di calma, di lentezza, di tranquillità inaspettatamente ed incredibilmente rilassante. Mamma, mi dispiace, ad averlo saputo prima mi sarei goduta quell’orto insieme un po’ di più, ma sono sicura che abbiamo ancora tempo per recuperare.

 

E anche raccogliere le mele, direttamente dall’albero, e riempire un cesto intero, senza andare al mercato, ha qualcosa di magico e speciale. E poi le abbiamo fatte cotte, che detto così fa tanto cibo da ospedale, ma se le tagliate a fettine, le bagnate con il succo di limone, un po’ di zucchero di canna, cannella a volontà e poi le fate cuocere qualche minuto in padella e poi magari le servite con una pallina di gelato alla vaniglia sono veramente, veramente deliziose!

 

belle bellissime

 

 

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